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Ombrelli: chi ha detto che proteggono solo dalla pioggia?

Un marchio di moda sostenibile trasforma gli ombrelli rotti dandogli nuova vita

20/05/2024

With some creativity, trash doesn’t exist.

Il loro scopo è proteggerci dalla pioggia, ma c’è chi li usa in modo diverso. D’estate il turista li sfrutta per ripararsi dal sole, Mary Poppins li usava per volare, Rihanna ci ha fatto anche una canzone e un videoclip molto accattivante. Qualcuno, poi, li usa anche come capi di vestiario. Avete letto bene: il tessuto di cui sono composti gli ombrelli, infatti, può essere recuperato e lavorato per poterne ricavare giacche, borse e cappelli. Come e perchè? Scopriamolo. 

L’ombrello: un oggetto semplice, ma fondamentale

Questo pratico strumento originariamente inventato (non è chiaro se in Cina, India o Egitto) per proteggersi da sole, è oggi diffuso in tutto il mondo con la funzione di parapioggia. Secondo l’OEC (Observatory of Economic Complexity), nel 2022 il commercio totale di questo prodotto a livello globale ha raggiunto la cifra di 3,78 miliardi di dollari. Il mercato degli ombrelli sembra destinato ad aumentare, complici i cambiamenti climatici, che comportano l’aumento delle precipitazioni, i temporali imprevedibili e l’intensificarsi di eventi meteorologici estremi.

Ma quante volte capita che un ombrello si rompa con grande facilità? Tante, forse troppe: e che cosa farsene dunque degli ombrelli rotti? Andrebbero gettati nell’indifferenziata, ma è anche possibile recuperarne delle parti e trasformarli in qualcosa di nuovo. È questa l’ottica adottata da R-Coat, un marchio di moda sostenibile che riutilizza gli ombrelli rotti trasformandoli in capi di abbigliamento dal design ecologico.

Da ombrello a cappello 

R-Coat è nato in una cameretta in Portogallo, dove si trovava la sua fondatrice, la triestina Anna Masiello, per svolgere una magistrale in sostenibilità ambientale. Masiello aveva da poco intrapreso un percorso personale di riduzione dei propri sprechi e rifiuti, quando ha cominciato a interrogarsi sui modi per dare una seconda vita agli ombrelli inutilizzati. Spiega: «Ho iniziato a vedere ombrelli rotti per strada nei giorni di pioggia… c’erano sempre stati, ma prima li vedevo come un rifiuto e non una risorsa. Ho iniziato a salvarli e a portarli nella mia piccola stanza da studentessa finché non ha cominciato ad assomigliare a un magazzino di ombrelli rotti e ho dovuto trovare una soluzione. Ho comprato una macchina da cucire, imparato le basi del cucito su YouTube e creato una prima giacca molto semplice (ed imperfetta) che ho chiamato R-Coat.»

Il brand è cresciuto nel tempo, anche grazie alla collaborazione con Yasmin Medeiros. Oggi producono giacche, borse e cappelli, creati con il tessuto di copertura dell’ombrello, dopo la rimozione del telaio. Aggiunge Masiello: «Per una giacca ci vogliono 5 ombrelli, per una borsa metà, un cappellino 1 terzo, e poi con quello che avanza facciamo gli scrunchies o i portamonete; proviamo a non buttare via nulla.» R-Coat ha infatti l’obiettivo di essere un’azienda il più possibile zero waste, perché grazie alla creatività, ciò che è spazzatura può diventare un abito o un accessorio di moda sostenibile e non essere l’ennesimo rifiuto da smaltire.

I punti di raccolta

Riutilizzare ombrelli rotti è certamente utile, ma dove reperirli? R-Coat dispone di una serie di punti di raccolta dove è possibile consegnare i propri ombrelli rotti, che si trovano soprattutto in Portogallo. «La maggior parte dei punti di raccolta sono università, scuole o negozi di vario tipo, solo alcuni vendono capi di abbigliamento e sono anche nostri rivenditori» spiega Masiello.

Non tutti gli ombrelli, però risultano adeguati. «Quasi tutti hanno imperfezioni, piccoli buchi o macchie; prima di consegnarli alle sarte disegnamo un cerchio con un gesso intorno all’imperfezione. Poi la sarta prova a fare un puzzle e ad evitare tutte le imperfezioni – spiega Masiello – Dobbiamo stare attente perché a volte quando l’ombrello si strappa facilmente è anche perché è stato molto al sole, in quel caso preferiamo non usarli.» 

Inoltre, per le stesse ragioni, i prodotti di quest’azienda non vengono fabbricati in grandi quantità: «Lo stock è minimo – aggiunge la fondatrice – Riusciamo ad averne di più solo se sono a tinta unita.» Ogni borsa, giacca o cappello è pertanto un prodotto unico realizzato con cura e dedizione.

Un brand italo-portoghese?

Il processo di lavorazione avviene in un atelier vicino a Lisbona, dove le sarte lavorano sia per R-Coat, sia per marchi privati. R-Coat si impegna a collaborare, per quanto possibile, con realtà locali, prevalentemente a conduzione femminile. La sostenibilità ambientale va quindi di pari passo con quella sociale. Un esempio sono le realtà con cui il marchio collabora per l’inchiostro acquistato per la stampa sulle scatole, o per la creazione del logo, che sono realizzati a mano in Europa da progetti condotti principalmente da donne. 

Alla domanda su una possibile espansione internazionale, Masiello risponde così: «Io sono italiana e, nonostante abbia iniziato il progetto in Portogallo, ho sempre saputo che avrei voluto espanderlo anche qui. Dopo sei anni mi sono trasferita nuovamente a Trieste e ora il mio obiettivo è rendere la mia città la base del mio business. Per quanto riguarda le altre città in Europa vedremo… un passo alla volta!»

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Elena Colombo

Laureata in Lettere (UniMi), attualmente studia Environmental Humanities (UniVe). Affamata di storie, ama scrivere di ambiente e lasciarsi provocare dalle idee delle persone. Determinata e scrupolosa, le piace andare oltre l’apparente superficialità dei fatti. Il suo luogo sicuro è la biblioteca, ma non fatevi ingannare: non è mai puntuale nella restituzione dei libri.

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