L’ambientalismo ai tempi del greenwashing

Capitalismo green ed ecologismo di facciata

Greenwashing: che cos’è?

Possiamo facilmente osservare che, ad oggi, contrariamente al passato, le strategie di green marketing non sono più “di nicchia”, rivolte unicamente a segmenti di mercato molto specifici e limitati, ma stanno diventando sempre più pervasive.

Così, se nei primi anni ’90 i risultati ambientali delle aziende influenzavano larga parte degli acquisti dei consumatori, nel 2015 ben il 66% dei consumatori globali (e tra i millennial la percentuale saliva al 72%!) era disposto a pagare di più per prodotti ecosostenibili.

A tal proposito, il greenwashing ha rappresentato e rappresenta uno dei principali ostacoli alla transizione ecologica. Sebbene nel nostro Paese tale concetto circoli relativamente poco nel dibattito pubblico, tuttavia, all’interno di una società capitalistica, esso segnala un punto nodale per un confronto realmente consapevole circa la questione ambientale.

Ma che cosa significa greenwashing? Questo termine è un neologismo inglese ricavato per analogia dall’espressione figurata whitewashing, indicante la pratica di occultamento della verità per la salvaguardia della reputazione di enti, aziende o prodotti.

Il greenwashing quindi è la strategia di marketing e comunicazione perseguita da aziende, istituzioni o enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, celandone l’impatto ambientale negativo.

Spesso il conio di un neologismo è molto più della mera creazione di una nuova parola; esso segnala la necessità di riflettere su un nuovo problema o, come in questo caso, di ripensare un vecchio problema in una declinazione inedita.

Il greenwashing, infatti, è ciò che costringe il pensiero ambientalista a interrogarsi circa la propria stessa natura: che cosa è veramente ecologismo e che cosa lo è soltanto di facciata?

Il caso DuPont

A partire da tali premesse, una possibile strada per giungere a una comprensione più consapevole di cosa sia l’ambientalismo e di cosa significhi essere ambientalisti potrebbe consistere proprio nel ripercorrere la storia del concetto di greenwashing, individuandone alcuni snodi fondamentali.

L’ambientalista americano Jay Westerveld coniò il termine greenwashing in un saggio del 1986 al fine di mettere in guardia i consumatori dal bombardamento massmediatico operato da alcune aziende che, facendo leva sull’insidiosa combinazione di limitato accesso pubblico alle informazioni e pubblicità apparentemente illimitata, intendevano presentarsi come premurosi custodi dell’ambiente, sebbene in realtà perseguissero pratiche insostenibili dal punto di vista ambientale.

Un esempio emblematico a tal proposito è quello relativo all’industria chimica DuPont, che nel 1989 presentò le sue nuove petroliere con una pubblicità ritraente animali marini che battevano le pinne sulle note dell’ “Inno alla gioia” di Beethoven.

Tuttavia, la DuPont è stata la più grande inquinatrice degli Stati Uniti: infatti, si stima che tra il 1951 e il 2003 l’azienda abbia riversato più di 7 mila tonnellate di pfoa (un composto chimico sino ad allora sconosciuto) nei corsi d’acqua, contaminando l’intero fiume Ohio e causando l’insorgenza di gravi danni alla salute di tutti coloro che avevano attinto a tali corsi d’acqua.

È proprio alla luce di questo episodio che il fenomeno del greenwashing è giunto all’attenzione delle istituzioni, le quali ovviamente sono interessate a normare i comportamenti delle aziende anche in tal senso.

Un capitalismo green è possibile?

Ora, per come la questione del greenwashing è stata posta sino a questo momento, l’assunto implicito di fondo è che sia possibile pensare un’azienda capace di anteporre il rispetto per l’ambiente al proprio profitto; ovvero, che sia possibile uno sviluppo sostenibile; ossia, in termini più tecnici, che sia realizzabile il decoupling, la separazione della curva dell’aumento del pil da quella delle pressioni ambientali.

Tuttavia, anche tale supposizione non può e non deve essere assunta acriticamente. In altre parole, una riflessione circa la questione del greenwashing che voglia essere realmente radicale dovrebbe porsi anche (e, forse, soprattutto) il seguente quesito: è davvero possibile un capitalismo green? E questa è esattamente la piega assunta da una certa riflessione ambientalista negli ultimi anni.

Insomma, spingendo alle proprie estreme conseguenze la riflessione ambientalista circa la questione del greenwashing, la situazione si complica notevolmente: forse la pubblicizzazione della possibilità di un capitalismo rispettoso dell’ambiente è essa stessa un occultamento della verità, perché un sistema economico che destini il profitto non al successivo ciclo produttivo ma ad altro (in questo caso, alla salvaguardia e alla tutela dell’ambiente), per definizione, non è capitalismo.

A questo punto, la domanda che dovremmo porci è: è possibile un pensiero ambientalista (coerente) che non sia anche un pensiero anticapitalista?

Altri articoli