Necessità di un’ecologia sociale
È a cavallo dei primi anni ‘70 che viene a manifestarsi la necessità di un approccio per così dire “sociale”, o meglio sociologico, all’ambientalismo e alle tematiche strettamente ecologiste.
Sono gli anni del primo Earth Day negli Stati Uniti, della prima conferenza sul clima a Stoccolma, ed è nel 1972 che esce il primo rapporto del MIT sui limiti fisici del sistema di crescita adottato durante il “trentennio glorioso”; purtroppo ancora non si poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco con l’era dell’edonismo reaganiano e l’illusione del sogno americano.
Negli USA tale fermento di idee corrisponde alla nascita dell’ecologia sociale, non solo in termini di disciplina formale ma anche a livello di movimento collettivo.
Essa si vuole principalmente focalizzata sul tema dell’ingiustizia ambientale, in particolare sul legame strutturale tra deprivazione sociale ed esposizione al degrado ecologico.
Viene messo in evidenza il problema culturale che sta alla base della non comprensione dei limiti di capacità di carico del nostro pianeta, ovvero il mito del progresso illimitato.
Modernità e mito del progresso
Andiamo per gradi: cosa intendiamo con mito del progresso e quando esso viene a manifestarsi nel suo più magnificente chiarore. Evidentemente il binomio fiducia nel progresso inteso come sviluppo tecnico – e tendenza al perfezionamento della natura umana è uno dei prodotti allo stesso tempo più alti e più ambigui dell’Illuminismo europeo.
La fioritura delle arti, l’ampliamento dei campi del sapere, il metodo scientifico da una parte, e il capitalismo, la nascita dello stato moderno e l’avvento della società secolarizzata dall’altra: il sacro perde il monopolio di definizione dei modelli di comportamento e del paradigma sociale e si afferma la ragione come principio di costruzione del reale; per dirla con Kant, “la ragione esce dal suo stato di minorità”.
Il tempo del progresso è il tempo della modernità. La modernizzazione della società può essere intesa in diversi modi a seconda della disciplina che la analizza: può essere riconosciuta anzitutto nell’insieme dei cambiamenti che si verificano in una comunità “tradizionale” quando essa inizia un processo di industrializzazione e dunque nello studio degli stessi (livello di sviluppo tecnologico, economico, scientifico e democrazia).
In secondo luogo modernizzazione fa riferimento all’analisi delle caratteristiche dei paesi “arretrati” e dei problemi che essi incontrano nel tentativo di avvicinarsi ai caratteri della modernità propri dei paesi traino di essa.
Chiaro è che questa concettualizzazione del progresso e dello sviluppo è propria dell’Occidente e quindi di tutta la produzione del sapere che ha avuto il privilegio di poter ergersi a occhio giudicante della storia mondiale.
Sviluppo e sottosviluppo acquisiscono senso se reciprocamente orientati: facile è quindi osservare come il termine sottosviluppo sia da sempre legato alla stigmatizzazione dello stesso.
Il modello sociologico sulla struttura sociale contribuisce al neoevoluzionismo, in particolare è con Talcott Parsons che si assiste alla ridefinizione del paradigma evoluzionistico che intende studiare i paesi sviluppati e sottosviluppati, tramite la corrispettiva distinzione di teorie della modernizzazione e teorie della dipendenza, dalle quali emergono diversi approcci allo sviluppo.
La tendenza globalista della lettura di queste tematiche è la più condivisibile: critica lo “sviluppismo” occidentalista mettendo in evidenza le conseguenze della modernità europeista e colonialista, difendendo l’insostenibilità di una crescita economica e demografica esponenziale in condizione di risorse limitate e soprattutto dislocate in maniera tale da impedire un effettivo processo di scambio globale.
Occorre quindi un “dopo sviluppo” in favore di una percezione più ampia del comportamento umano e sociale, anche e soprattutto in relazione all’ambiente circostante.
Ulrich Beck e la società del rischio
Ulrich Beck nella propria teoria della Risikogesellschaft – la società del rischio – si avvicina molto a questa visione dello sviluppo della società e del mondo globalizzato.
Globalità significa in Beck che nessun paese e nessun gruppo si può isolare da un altro: con l’avvento di ciò che egli ritiene essere la contemporaneità, ovvero una seconda modernità, lo Stato nazione perde quella sua propria sovranità territoriale e deve lasciare spazio alla ricollocazione della sfera del politico ad un livello sovranazionale.
La post modernità rappresenta in questi termini sia una totale frattura con la società industriale sia una continuità data da una esasperata riflessione sulle conseguenze non volute della stessa.
La società del rischio – la nostra epoca – è in questo senso un processo di autotrasformazione della modernità. Nel La società mondiale del rischio (1986) Beck ritiene che nel mondo globalizzato la produzione sociale di ricchezze sia corrispettiva alla produzione sociale di rischi: il rischio diviene la nuova nozione paradigmatica con la quale interpretare il reale.
Rischio è innanzitutto l’anticipazione della catastrofe, sempre possibile ma mai in atto: non appena esso diviene situazione reale allora è già disastro.
La società contemporanea è una società caratterizzata dell’incertezza poiché le certezze di base della prima modernità sono in crisi: ad oggi i rischi sono anticipabili, prevedibili, ma non calcolabili e dunque il futuro diviene problematico.
Se prima della modernità la minaccia possibile era naturale, potremmo dire esterna, non era legata strettamente all’agire umano, nell’era dell’antropocene il pericolo diviene fabbricato dalla mano umana.
Beck considera sette categorie di rischio principali: il rischio ecologico, terroristico, finanziario, biomedico, militare e informatico. La caratterizzazione del rischio si fa ancora più precisa se prendiamo in esame tre descrizioni che ci aiutano nell’assumerlo come matrice del tempo contemporaneo.
Il rischio è contraddistinto in primo luogo dalla delocalizzazione, poiché le cause e le conseguenze non sono limitate ad un singolo luogo ma possono essere avvertite ovunque; esso è dopodiché incalcolabile, in quanto per definizione, come abbiamo poc’anzi affermato, i rischi non sono mai in atto, ma sempre ipotetici o virtuali.
Per finire, come diretta conseguenza dei punti precedenti, il rischio non è commensurabile: non può essere risarcito ma può essere prevenuto tramite precauzione.
Una società del rischio globale che si auto-comprenda è secondo Beck in grado di riflettere su se stessa in tre ordini di termini: i pericoli mondiali stabiliscono inevitabilmente delle reciprocità e degli scambi globali, e dunque in questo senso cominciano a prendere forma i contorni di una sfera pubblica mondiale.
In secondo luogo, vi è una percezione di un’auto-minaccia globale, a cui la politica internazionale può rispondere attraverso lo sviluppo di istituzioni slegate dal territorio statale; ecco quindi che in definitiva i confini del politico legati alla rete nazionale e statale di un luogo possono essere messi da parte ed essere scavalcati dalla reale interdipendenza dei singoli e della società globalizzata.
La lotta ontologica al dualismo occidentale
Con diversi avvertimenti il cambiamento climatico e le prospettive non rosee del rischio ecologico profilato da Beck si sono manifestate negli ultimi venti anni. È invece ormai da più di un anno che la Terra si è definitivamente imposta chiedendo la effettiva necessità di ridimensionare la visione antropocentrica della specie umana.
Per dirla con Latour, “il senso di vivere nell’epoca dell’Antropocene è che tutti gli agenti condividono lo stesso destino mutevole”[i] occorre quindi per questo modificare il proprio habitus di esistenza. L’essere umano è specie tra le altre, specie tra gli altri animali e specie nel regno naturale. Non vi può più essere una distinzione netta tra l’oggettivo e il soggettivo, tra l’umano e il “naturale”, perché l’umano è naturale.
Dobbiamo quindi ritenere necessaria non solo come auspicava Beck una presa di coscienza globale nell’assumere la sfida del contemporaneo come interconnessione di territori non più confinati nel proprio limite statale, poiché questo non basterebbe più.
È evidente sia necessario a questo livello di problematica una ristrutturazione della percezione dell’uomo occidentale nei confronti dell’ambiente in senso lato.
È per questo che non è più possibile oscurare il diverso e rinchiuderlo in stereotipi anacronistici legati al mito del buon selvaggio. Altre culture che l’Occidente ha represso a partire dal 1492 sono in grado di insegnarci come riprendere in mano una relazione di cura con l’ambiente circostante, l’altro e noi stessi. Facciamo loro spazio.
Bibliografia:
I. KANT, Che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti di Storia, politica e diritto, ed. Laterza, Bari 2009.
U. BECK, “The Cosmopolitan Society and Its Enemies”, in Theory, Culture and Society 19 (1-2), 2002.
U. BECK, “La società mondiale del rischio e le insicurezze fabbricate, in Rivisteweb de il Mulino 3, dicembre 2008.
U. BECK, “Mucca pazza” e la società del rischio globale”, in Rivisteweb de il Mulino 2, agosto 2001.
B. LATOUR, “Agency at the time of the Anthropocene”, in New Literary History vol. 45, pp. 1-18, 2014.
Altri consigli bibliografici:
- BARREAU, Ora. La più grande sfida della storia dell’umanità., Add Editore, 2020.
- ESCOBAR, “Posconstructivist political ecologies”. In Redclift M., Woodgate G. (eds.). The International Handbook of Environmental Sociology. Second Ediction. Cheltenham, pp. 91 – 105, 2010.
- PELLIZZONI, “Sociologia dell’ambiente: un profilo genealogico”, in Sociologia urbana e rurale n. 115, 2018.
Intervento sulle connessioni tra il G8 di Genova e il collasso dell’ecosistema al festival dell’antropologia di Bologna 2021: https://fb.watch/5AyxpZ2p10/

Laureata in Filosofia (Unipd), sta conseguendo la Laurea Magistrale in Metodologie Filosofiche (Unige). È appassionata di filosofia politica e interessata a tutto ciò che permette la crescita individuale e comunitaria, da sempre sensibile ai temi della giustizia sociale. Con entusiasmo ha deciso di collaborare con Atmosphera lab.